3 Aprile 2023In Transcreation12 Minuti

La transcreation si può insegnare?

Sai qual è il colmo per una persona che tiene corsi di transcreation?
Chiedersi se la transcreation sia qualcosa che si può insegnare.

No, non c’è nessuna crisi d’identità all’orizzonte! Tenere seminari e interventi mi piace perché mi dà il grande privilegio di interagire con le persone e imparare dal confronto con loro. In più è una performance e mettersi in gioco è sempre stimolante.

Dopo dieci anni di insegnamento, però, è tempo di bilanci e di riflessioni, che provo a condividere con questo blog post.

Insegnare il “quasi ininsegnabile”

Nel novembre del 2022 tengo un corso sulla transcreation organizzato dall’Italian Network dell’Institute of Translation and Interpreting. Una partecipante mi ringrazia su LinkedIn “for your work teaching the ‘almost unteachable’”.

Questo complimento mi ha riempito il cuore di gioia ma mi ha anche dato da pensare. Perché io per prima, ogni volta che tengo un corso, il problema me lo pongo. Come faccio a insegnare quella sensibilità per le parole applicata al marketing e alla pubblicità che contraddistingue il copywriting?

In un paper pubblicato nel Journal of Specialised Translation nel 2018, mostravo la differenza fra traduzione e transcreation prendendo come discrimine i criteri di valutazione. Una traduzione può essere giudicata su basi oggettive, cioè considerando categorie di errore come distorsione del senso, aggiunta, omissione, sintassi e così via. Queste categorie, però, perdono di significato se le utilizziamo nell’ambito dei testi pubblicitari e promozionali e le applichiamo alla transcreation.

Quello che in traduzione è considerato errore non lo è affatto in transcreation, dove invece “infrangere le regole” rappresenta un valore aggiunto. Transcreation e traduzione, in sintesi, sono due servizi distinti (ma non alternativi), che seguono criteri diversi e anche prassi lavorative diverse.

L’obiezione che mi si potrebbe muovere è scontata: se non ci sono regole, allora “vale tutto”? Se non ci sono criteri oggettivi, come si fa a stabilire se un lavoro di transcreation è fatto bene o male? In transcreation tanto quanto nel copywriting, lo stile personale inteso sia come approccio creativo che come stile di scrittura gioca un ruolo importantissimo. Le scelte operate dipendono anche dal gusto e dalla sensibilità personali, e la committenza decide di affidarsi a chi le sembra sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda. Ma allora, se la transcreation è anche questione “d’orecchio” e sensazione “di pancia”, è possibile insegnarla?

Secondo me la sensibilità si può stimolare, ed è quello che cerco di fare ai miei corsi. Vediamo come.

Come stimolare la sensibilità

A uno dei miei primi seminari, una persona rimase delusa perché si aspettava di ricevere una specie di prontuario che spiegasse come tradurre determinate espressioni tipiche del marketing e della pubblicità. Chessò, “whether… or” si traduce così, “make the most of” si traduce colà. Quando lessi quel feedback mi caddero le braccia. Avevo ribadito per sette ore che non esiste un’unica soluzione, che un testo può essere reso in tanti modi diversi… e mi arriva questo genere di critica?!

Peraltro non potrei mai essere prescrittiva su qualcosa di estremamente soggettivo come lo stile. Qualche regola generale c’è, e Luisa Carrada offre spunti preziosi in Guida di stile. Scrivere e riscrivere con consapevolezza. Ma in pubblicità e nel marketing ogni brand ambisce a esprimersi in modo unico, diverso da quello dei competitor. Quindi che senso ha dire “ogni volta che in inglese o in tedesco vedete il costrutto X, rendetelo con Y”?

Ai miei corsi posso fare solo tre cose: spiegare i ragionamenti che stanno dietro alle mie scelte, riflettere a voce alta su quello che vedo in giro e, durante il laboratorio pratico, muovere critiche costruttive. Di seguito un piccolo assaggio delle prime due.

Ragionamenti dietro alle mie scelte

Prendo qui in considerazione tre miei lavori di transcreation e li illustro brevemente.

“Non lo metti? Mettilo in vendita!”, la mia versione italiana di “Don’t wear it? Sell it!” di Vinted
Per il simil-chiasmo che contiene (lo metti / mettilo) e per il ritmo dato dalla seconda frase, mi suona molto più incisivo di “Non lo metti? Vendilo!”. Ma mi chiedo: siamo nel regno del soggettivo o dell’oggettivo?
Per approfondire: case study Vinted


“Conosci davvero i tuoi eroi”, la mia versione italiana di “Never meet your heroes” di
The Boys
Per questa headline avevo dato due proposte, “Mai incontrare i propri eroi” e “Conosci davvero i tuoi eroi”.

  • “Mai incontrare i propri eroi”, più simile all’originale, perde ogni contatto con il significato del modo di dire “never meet your heroes”, che in italiano non esiste. In compenso, grazie alla forma impersonale, presenta la formulazione tipica del proverbio e sembra un avvertimento, un monito, proprio come in inglese. In più, presa letteralmente funziona, perché nel contesto di The Boys i supereroi sono dei criminali in cui è meglio non imbattersi.
  • “Conosci davvero i tuoi eroi?” ha il notevole vantaggio di rivolgersi direttamente a chi legge e di risultare un teaser ancora più intrigante dell’originale.

Personalmente preferivo “Conosci davvero i tuoi eroi?”, proposta che è stata poi scelta per la campagna di lancio della serie TV. Una collega traduttrice, però, mi ha detto di preferire “Mai incontrare i propri eroi”. Quindi forse anche in questo caso va a gusti?
Per approfondire: case study The Boys


“Sicurezza per ogni altezza”, la mia versione italiana di “So sichern Sie Leben” di Innotech
Mentre in inglese e in tedesco la rima non crea nessun tipo di problema, la mia impressione è che in italiano spesso sia meglio evitarla. Trovo che tenda a “banalizzare” il messaggio creando un tono di voce “sbarazzino”, ideale per i beni di consumo e i giocattoli ma meno adatto ad altre tipologie di brand. Qui, nell’originale tedesco dell’azienda austriaca specializzata in sistemi anticaduta e linee vita, non c’era nessuna rima. Eppure, nella vagonata di proposte che ho fornito in italiano, ho voluto inserire anche un’opzione con la rima… e la cliente ha scelto proprio quella! Dunque come la mettiamo? Dove sta scritto che la rima in italiano va usata con moderazione?

Riflessioni su quello che vedo in giro

Siccome scripta manent (e in più the Internet never forgets), preferisco non puntare il dito. Provo invece a fare qualche esempio generico ma rappresentativo.

Ottenere
Da anni ormai, soprattutto sul web, è un tripudio di “ottieni”: “Ottieni l’offerta speciale”, “Iscriviti alla newsletter e ottieni il 10% di sconto”, “Prova subito X e ottieni un buono sconto”. In inglese “get” è un verbo di uso comune e la sua prima accezione è “obtain, receive or be given something” (Macmillan). In italiano, invece, “ottenere” implica tassativamente un qualche sforzo: “riuscire ad avere qualcosa che si desidera o a cui si ha diritto” (Zingarelli). “Get” e “ottenere”, quindi, non sono totalmente sovrapponibili, quantomeno nei casi riportati, e secondo me “ottieni” è un calco dall’inglese. Ma forse è una fisima tutta mia…?


Soldi, soldi, soldi
In inglese parlare di soldi è normale
: “Save money”, “Earn extra cash”, “Open a mobile money account”. In italiano parlare di “soldi” (registro più basso) e “denaro” (registro più alto) è un po’ da cafoni, e infatti quel termine tendiamo a usarlo perlopiù in frasi fratte (“tempo e denaro”) o contesti molto specifici (“inviare denaro”). Però in rete mi capita di vedere cose tipo “Guadagna soldi extra”, “Risparmia denaro” e “Apri un conto di denaro mobile”. Vorrà mica dire che l’“avversione per i soldi” è un’idiosincrasia tutta mia e non un tratto culturale del popolo italiano?


Verbi all
’imperativo
Ci hanno ripetuto ad nauseam che dobbiamo coinvolgere chi legge, e quale modo verbale migliore per esortare all’azione, se non l’imperativo? In inglese l’imperativo si può usare con qualsiasi verbo, e quindi “See what’s new”, “Find the brands you love”, “Be the first to know”, “Know you can”. Siamo proprio sicuri che in italiano diremmo “vedi”, “trova”, “sii” e “sappi” in questi casi? L’“imperativite”, peraltro, è una tendenza perniciosa che vedo dilagare anche nella UX localization. Va bene che nello UX writing tutto deve essere actionable, ma se in certi contesti l’imperativo risulta poco naturale in italiano, perché ostinarsi a usarlo? Forse perché è tutto soggettivo (e quindi “vale tutto”)?

Quindi la transcreation si può insegnare?

Ai miei corsi di transcreation propongo un metodo di lavoro e diffondo buone prassi di settore: questo è insegnabile.

Ma tutte le sfumature presentate in questo articolo sono “quasi ‘ininsegnabili’”, perché non posso dare certezze assolute supportate da manuali e grammatiche. Instillare dubbi, sollevare interrogativi e mettere in discussione le scelte proprie e altrui: secondo me è questo il modo giusto di stimolare la sensibilità. Con buona pace di chi dal mio corso di transcreation sperava di ricavare un vademecum di rapida consultazione!

Dal 2013 insegno transcreation a traduttori, copywriter e studenti (anche delle superiori!), in presenza e online, adottando l’approccio descritto in questo articolo. Ti va di saperne di più?